Fuga dall’omofobia

Luigi Riccio

Per i richiedenti asilo omosessuali non è facile trovare protezione in Europa.
I risultati del rapporto Fleeing Homofobia. Il racconto di un attivista della
rete Lenford.

In 76 Paesi nel mondo l'omosessualità è considerata reato, in 7 è punita con
la pena di morte. Tra le migliaia di persone che ogni anno richiedono la
protezione internazionale in Europa c'è anche chi fugge per le persecuzioni
subite a causa del proprio orientamento sessuale. Lo spirito della Convenzione
di Ginevra sui rifugiati del 1951, è stato ribadito dall'Unione Europea con la
Direttiva Qualifiche del 2004. Questa, all'art. 10, introduce l'orientamento
sessuale come motivo di persecuzione. Ed ha anche elaborato, con la Direttiva
Procedure del 2005, degli standard procedurali minimi per il rilascio della
protezione internazionale. In tutt'Europa, un omosessuale in fuga dall'Iran,
dall'Arabia Saudita o da qualsiasi altro Paese in cui l'omosessualità è
penalmente perseguita (o per cui è prevista la pena di morte), dovrebbe
ricevere il medesimo trattamento. Ma così non è.
Nei vari Paesi le prassi adottate sono non sempre concordi, e in alcuni casi
nettamente discutibili. E questo anche in stati, come la Spagna, che hanno
legislazioni all'avanguardia sulla tutela dei diritti di omosessuali,
bisessuali e transessuali. A metterlo in luce, il rapporto Fleeing Homofobia,
indagine comparativa sulla concessione del diritto d'asilo a persone
discriminate per il proprio orientamento sessuale e di genere.
Abbiamo chiesto di parlarcene all'avvocato Simone Rossi, socio dell'
associazione Rete Lenford, che è stata partner per l'Italia nell'elaborazione
dell'indagine.

Quali dati sono emersi nella vostra comparazione?
«Si nota una certa disomogeneità tra le prassi utilizzate nei singoli Paesi Ue
ed alcune di queste si rivelano estremamente critiche. Una di queste, molto
diffusa ad esempio in Danimarca, Norvegia, Spagna, Finlandia e Bulgaria, è
quella di non considerare sufficiente l'esistenza, nel paese di origine del
richiedente asilo, di norme che criminalizzano gli omosessuali. Secondo tali
Paesi, il richiedente deve dimostrare di essere egli stesso in un concreto
stato di pericolo, di aver ricevuto persecuzioni, subito arresti e quant'altro.
Che il paese criminalizzi l'omosessualità con delle norme specifiche, non
basta.
Altri Paesi, invece, prima di concedere la protezione internazionale, si
riservano di valutare se tali leggi persecutorie vengano effettivamente
applicate o meno. Questo è un problema, perché non sempre sono disponibili dati
precisi sull'applicazione di tali norme nel paese in questione. E in ogni caso,
già solo l'esistenza di queste norme denotano un clima di ostilità, di
omofobia, di cui comunque l'omosessuale è vittima».

In quale modo i richiedenti asilo omosessuali dimostrano il proprio
orientamento alle Commissioni territoriali?
«Ci sono alcuni Paesi, come l'Ungheria e la Bulgaria, in cui le autorità
richiedono perizie psicologiche o psichiatriche a dimostrazione del proprio
orientamento sessuale. Il richiedente non è obbligato a sottoporsi a queste
visite, ma di fatti è come se lo fosse: senza queste prove, non viene
considerato credibile. In altri Paesi, invece, come l'Austria, la Romania e la
Polonia, prove del genere sono richieste solo in caso di dubbio, non dalle
autorità statuali in sé ma dalle Commissioni territoriali. Altre prassi, più
anacronistiche, erano adottate in Repubblica Ceca, ma dal 2009 non sono più in
vigore. I richiedenti omosessuali venivano sottoposti ad un test fallometrico,
dove si valutava se il richiedente, guardando ad esempio un film porno gay,
manifestasse delle reazioni».

Quanto pesano gli stereotipi nella valutazione di questi casi?
«Gli stereotipi sono molto diffusi ed hanno un peso rilevante. Alcuni Paesi
sono più propensi a rilasciare lo status di rifugiato a persone che siano
visibilmente omosessuali, come nel caso di uomini effeminati o di donne che
presentino caratteristiche maschili. Questo ci porta ad un altro tipo di
problema: e cioè alla mancanza di un'adeguata formazione per affrontare
casistiche del genere. Capita molto spesso che i componenti delle Commissioni,
gli avvocati o i membri delle Ong non siano abbastanza informati e concepiscano
l'omosessualità in modo rigido e univoco, che ovviamente non corrisponde alla
realtà, che è molto più sfaccettata».

Sono emerse prassi particolarmente discriminanti o negative?
«In alcuni Paesi viene applicato il requisito della discrezionalità. Per
Belgio, Svizzera, Finlandia, Bulgaria e Norvegia, il richiedente omosessuale
potrebbe svolgere normalmente la sua vita nel paese di origine se nascondesse
il proprio orientamento sessuale. Questa prassi, oltre ad essere discriminante
in sé, contraddice lo stesso spirito della Convenzione di Ginevra sui rifugiati
del 1951, per cui, se la persona è obbligata a nascondersi, significa che c'è
una violazione dei suoi diritti umani. Un segnale positivo, in questo caso, è
arrivato dal Regno Unito, che pure applicava questa sorta di attenuante. Con
una sentenza della Corte Suprema del 2011, il requisito della discrezionalità è
stato abrogato, perché lesivo della dignità umana».

E in Italia? Com'è la situazione?
«Dal nostro monitoraggio, abbiamo riscontrato in Italia delle prassi
sostanzialmente positive. Ai richiedenti omosessuali non vengono rivolte
particolari richieste, e le decisioni si affidano molto sulla credibilità della
storia personale del richiedente. Ovviamente, se la persona possiede delle
prove, di qualsiasi tipo, che possano comprovare la sua omosessualità, è
agevolato. Ma non abbiamo riscontrato casi in cui si applichi, ad esempio, il
requisito della discrezionalità, tantomeno che vengano raccolte prove sulla
reale applicazione o meno di norme criminalizzanti nel paese di origine del
richiedente. L'esistenza in sé di tali norme è sufficiente. Nelle Commissioni
territoriali italiane è inoltre presente un membro dell'Unhcr, che porta con sé
un bagaglio formativo di certo più completo.
Per quanto riguarda il rilascio effettivo dello status di rifugiato a persone
omosessuali, la media è in linea con la percentuale totale dei permessi
concessi. Dal 2008 al 2010, ci risultano almeno 400 casi di omosessuali che
hanno richiesto protezione in virtù del proprio orientamento sessuale.
Il problema, ma questo non riguarda solo l'Italia, è piuttosto quello che
molti omosessuali non sanno di poter richiedere la protezione internazionale
per le discriminazioni vigenti nel proprio paese. A Verona, ad esempio, abbiamo
aperto uno sportello per concedere informazioni legali sull'argomento.
Personalmente, mi è capitato di conoscere un omosessuale, da più tempo senza
permesso di soggiorno, che non sapeva di poter ottenere protezione in virtù
delle persecuzioni subite».

Un altro dato emerso dall'indagine?
«Abbiamo notato una certa invisibilità delle donne omosessuali. I casi di
richieste che abbiamo riscontrato sono davvero pochi. Non sappiamo il perché,
ma è un dato che andrebbe approfondito».

Fonte: http://www.corriereimmigrazione.it/ci/2012/09/fuga-dall-omofobia/
Pubblicato da Lorenzo Bernini